Newsletter - Tech e Privacy - II settimana di aprile2025
di Claudia Giulia Ferraùto - 10 aprile 2025
Questo articolo fa parte della Newsletter settimanale “Tech e Privacy”
Benvenuti alla seconda settimana di aprile 2025!
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SOMMARIO dei temi della settimana + APPROFONDIMENTI
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LA SINTESI GENERALE DEI TEMI TRATTATI
Dazi di Trump: un’arma contro le regole UE sulle Big Tech
I dazi di Trump mirano a costringere l’UE a ridurre regolamenti e multe alle Big Tech, usando il protezionismo come leva per una globalizzazione a favore degli USA. Sabino Cassese, dice che i dazi di Trump sono un pretesto: il problema è il dominio delle Big Tech.
Numeri di Meloni e Mattarella online: allarme o bufala?
Un informatico denuncia un furto di dati istituzionali, ma esperti smentiscono: sono numeri raccolti da siti pubblici, non una falla di sicurezza nazionale.
iPhone “Made in USA”: un salasso da 3.500 dollari
Con i dazi di Trump, un iPhone prodotto in USA potrebbe costare 3.500 dollari, secondo CNN, ma gli esperti dubitano sia fattibile per i costi e la complessità.
Starlink per le Forze Armate: opportunità o problema?
Starlink offre connettività globale, ma limiti tecnici, i costi e i rischi geopolitici lo rendono inadatto per usi militari e istituzionali.
QUI DI SEGUITO TUTTI GLI APPROFONDIMENTI
Cosa vuole Trump imponendo dazi all’Europa? Ottenere una retromarcia della Commissione Europea sui regolamenti e le multe ai Big Tech
Sabino Cassese, giurista ed esperto di diritto, ha offerto un’analisi profonda e arguta sul tema dei dazi imposti la scorsa settimana - e rimossi temporaneamente ieri - durante la trasmissione Tagadà, condotta da Tiziana Panella su La7 il 4 aprile 2025. Nel corso dell’intervista, Cassese ha spostato l’attenzione su un problema che considera più rilevante delle politiche tariffarie: il potere delle Big Tech.
Cassese ha spiegato che negli ultimi vent’anni, negli Stati Uniti, le grandi aziende tecnologiche - come Google, Amazon, Apple e altre – hanno acquisito un’influenza e una potenza economica tali da superare, in alcuni casi, quella degli Stati nazionali stessi.
Questo fenomeno rappresenta una trasformazione significativa del panorama globale, dove i tradizionali equilibri di potere tra governi e settore privato sono stati ridefiniti.
Parlando dei dazi, Cassese ha introdotto una riflessione originale che sposo appieno: sebbene queste misure siano generalmente percepite come uno strumento protezionistico, volte a difendere l’economia interna di un paese, gli USA sotto la presidenza di Trump, il loro utilizzo in questo momento potrebbe voler sfruttare i dazi non tanto per proteggere gli Stati Uniti, ma per accelerare una forma di globalizzazione controllata, in cui gli USA mantengono una posizione dominante.
In altre parole, i dazi sarebbero un mezzo tattico per rinegoziare i rapporti economici internazionali a favore degli interessi americani, piuttosto che un fine per chiudersi davvero al commercio globale.
Cassese ha poi enfatizzato il fatto che il dibattito sui dazi rischia di essere fuorviante se non si considera il contesto più ampio. Il vero nodo, per lui, non è la politica tariffaria in sé, ma il modo in cui le Big Tech hanno accumulato un potere che sfugge al controllo democratico e che influenza le dinamiche economiche e politiche globali. Questo potere, ha concluso durante l’intervista con Tiziana Panella, è il problema strutturale da affrontare, più urgente e complesso rispetto alle misure economiche come i dazi.
A mio parere
Il potere sovranazionale delle Big Tech, sfugge da tempo alle regole, per questo a mio avviso le normative europee - ampiamente criticate da tutti gli schieramenti politici - sono invece un baluardo di libertà e di difesa della democrazia europea. Salvo l’affastellamento delle regole e la loro difficoltà applicativa in un’ottica di crescita del mercato digitale, punti sui quali invece anche a mio avviso è necessaria una revisione immediata.
Concordo con Cassese quindi sul fatto che i dazi verso l'Unione Europea vertono principalmente - anche se non solo - a ricalibrare il ruolo delle norme digitali che tanto mettono in crisi la tecnocrazia statunitense. E su questo punto il mio invito ai politici a fare molta attenzione a non cedere facilmente, perché proprio lì dove il dente-Tech duole c’è la possibilità di stabilire un ruolo europeo più forte.
I numeri di Meloni e Mattarella online: la sicurezza nazionale è a rischio?
La questione viene sollevata da un informatico che allerta a gran voce un presunto "furto di dati" di numeri di telefono di figure di spicco tra le istituzionali italiane, come il Presidente Sergio Mattarella e la Premier Giorgia Meloni.
La bomba viene ripresa e ampiamente lanciata dai media, ma a oggi diversi analisi e esperti del settore - soprattutto in canali e mailing di settore - dicono che le cose sembrano essere diverse e che la notizia sembra essere sfuggita di mano da parte di molti media.
Marco Camisani Calzolari - nome popolare grazie alla sua presenza su Striscia La Notizia - chiede apertamente perché i giornalisti non facciano le opportune verifiche contattando gli operatori di settore prima di dare certe notizie in prima pagina (QUI) e DDay.it, gli dà manforte suggerendo che non si tratti di una violazione informatica o di un database rubato - come detto da molti media - bensì di un fenomeno noto e, seppure serio, meno allarmante di quanto paventato in questi giorni (QUI).
Ma facciamo uno stop e ripartiamo: cosa è accaduto davvero?
Tutto è iniziato il 17 marzo quando con un post su LinkedIn Andrea Mavilla, informatico, afferma di aver scoperto un enorme database contenente numeri personali di politici, ministri e dipendenti pubblici italiani, suggerendo si tratti di una grave falla di cybersicurezza. Secondo Mavilla, questo database include oltre 2.000 contatti della Presidenza del Consiglio, quasi 14.000 del Ministero della Giustizia e migliaia di altri numeri legati a forze dell’ordine e ministeri chiave.
La notizia è uscita due giorni fa su Il Fatto Quotidiano, e da lì in poi è stato un tam-tam. I giornali riportano l’avviata di un'indagine della Polizia postale per verificare la diffusione delle informazioni personali in rete e la liceità del possesso di tali dati.
Mavilla nel suo post sosteneva con toni molto preoccupati, che quei dati così sensibili fossero accessibili tramite piattaforme online di “lead generation” (siti che raccolgono contatti per scopi commerciali) e ha tentato quindi di segnalare il problema alle autorità, contattando prima l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) - che ha liquidato brevemente il post apparso sui social senza dargli peso - e successivamente si è rivolto poi direttamente il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi via WhatsApp - senza però ricevere risposta.
Come stanno davvero le cose?
Secondo l’analisi di DDay.it, non c’è stato alcun furto né una violazione o una messa in pericolo di sistemi governativi. I numeri di telefono in questione non provengono da un database hackerato, ma sono informazioni già disponibili pubblicamente o semi-pubblicamente, raccolte da aggregatori di dati come Lusha o simili.
Questi siti, operativi da anni, estraggono contatti da fonti aperte (social media, elenchi professionali, ecc.). Un test condotto da DDay.it conferma che cercando su Lusha i propri dati, si ottenevano informazioni vecchie o incomplete, non numeri frutto di un recente attacco informatico.
Camisani Calzolari sottolinea che Mavilla potrebbe aver presentato come scoperta sensazionale un fenomeno che in realtà è già noto agli esperti di sicurezza. E questa notizia sbandierata di recente sui giornali non sarebbe quindi una penetrazione in sistemi protetti, ma l’ennesimo uso di dati raccolti legalmente o semi-legalmente da piattaforme commerciali. Inoltre, alcuni esponenti del settore sospettano che gli screenshot usati di Mavilla per supportare la sua tesi, non abbiano riscontro, ma il post originale su LinkedIn è stato rimosso (edit: è stato poi ripubblicato da Maville ma disabilitando la possibilità di fare commenti).
Le implicazioni reali
Il caso evidenzia un problema reale: la facilità con cui aggregatori di dati possono raccogliere e vendere informazioni personali, anche di figure istituzionali. Questo solleva interrogativi sulla necessità di maggiore e migliore tutela della privacy, ma al momento secondo ACN non sembra rappresentare l’attestazione di una minaccia alla sicurezza nazionale. Per questo l’ACN ha definito il fatto privo di evidenze concrete sul piano della sicurezza nazionale.
D’altra parte il Garante per la Privacy ha aperto un’istruttoria per valutare la liceità di queste pratiche di raccolta dati. In sintesi, la "questione Mavilla" sembra ricadere nello “scraping” e aggregazione di informazioni, un fenomeno diverso e lontano da un attacco hacker ai danni della sicurezza nazionale.
A mio parere
Il problema reale qui mi sembra il rispetto delle regole europee. C’è da augurarsi che il Garante sia in grado monitorare la situazione e di farsi sentire facendo rimuovere i dati sensibili dei cittadini italiani tutti (non solo quelli di figure apicali) e/o faccia oscurare tutti i siti che ne fanno incetta pubblicandoli o rivendendoli.
La vera lezione? Sorvegliare le tracce digitali e segnalare questi siti al Garante Privacy. Rimosso uno, ne spunterà un altro, la situazione quindi va costantemente monitorara.
Se vince la linea Trump un iPhone “Made in USA” verrebbe a costare una cifra insostenibile: 3.500 dollari
Secondo le stime riportate dalla CNN e fornite da Dan Ives, responsabile globale della ricerca tecnologica presso Wedbush Securities - basandosi sulla politica dei dazi e rilocalizzazione - prezzo di un iPhone potrebbe salire vertiginosamente fino a toccare quota 3.500 dollari, se Apple decidesse davvero di trasferire la produzione negli Stati Uniti.
Questa previsione si inserisce nel contesto delle politiche commerciali proposte da Donald Trump, che spingerebbero per una rilocalizzazione della produzione sul suolo americano. Tuttavia, gli analisti avvertono che il costo per Apple sarebbe altissimo: circa 30 miliardi di dollari solo per trasferire il 10% della catena di approvvigionamento, un’operazione che tra l’altro richiederebbe almeno tre anni, per una prima parte del processo.
Secondo Ives, realizzare l’intera produzione dell’iPhone negli Stati Uniti rappresenterebbe una “storia di fantasia”, soprattutto per l’enorme complessità e i costi necessari per ricreare negli USA l’attuale ecosistema produttivo asiatico. La cifra di 3.500 dollari rappresenterebbe quindi il risultato diretto di manodopera più costosa, infrastrutture da costruire e forniture tecnologiche da rilocalizzare in aree come il West Virginia o il New Jersey.
A mio parere
L’analisi è essenzialmente un esercizio di stile, visto che Apple non sta comunicando niente in tal senso, ma è interessante perché rappresenta il potenziale impatto delle politiche protezionistiche di Trump sull’economia tech.
Il buono è che questa stima - che temo non sia affatto lontana dal veto - sta alimentando un acceso dibattito sulla sostenibilità economica del “Made in USA” in ambito tech, mettendo in dubbio la linea politica di Trump nel dibattito pubblico degli Stati Uniti.
A margine. Un’altra caratteristica interessante, principalmente a livello sociale e giornalistico, è che questa stima, assolutamente realistica, viene sempre una sola - seppur autorevole- fonte riportata da tutti i media ha generato una sorta di certezza tautologica. Quel prezzo è ormai dato per certo, sebbene sia sempre e solo la stessa stima. Una valutazione auto validata grazie all’eco mediatico. La cosa più buffa è che lo stesso Dan Ives a sottolineare come l'idea sia una "storia di fantasia"perché sarebbe necessario replicare negli Stati Uniti l’intero ecosistema produttivo - peraltro altamente complesso - attualmente esiste in Asia.
Pregi e difetti di Starlink per le Forze Armate
Starlink per scopi istituzionali o militari: vantaggi, sfide e problemi.
L'approfondimento che segue è stato scritto pubblicato in origine su Start Magazine il 25 Marzo 2025 (QUI)
Starlink, il progetto di SpaceX, è una meraviglia tecnologica che ha ridefinito il concetto di connettività globale.
Con oltre 7.000 satelliti in orbita bassa (LEO) e un obiettivo ambizioso di 42.000, questa rete offre internet ad alta velocità in aree remote, o aree prive di infrastrutture terrestri. È un sistema unico nel suo genere, un trionfo dell’ingegneria e delle capacità visionarie di Musk, che testimonia il potenziale dell’innovazione umana.
Tuttavia non ci si può far sedurre con troppa facilità se si intende usarlo per scopi istituzionali o militari, perché qui la musica purtroppo cambia.
Come ho analizzato nel mio approfondimento“Speciale Starlink”, questa tecnologia straordinaria si scontra con limiti tecnici, economici e geopolitici che non possono essere superati, probabilmente nemmeno con le soluzioni più avanzate.
Esistono ostacoli strutturali, radicati nella natura stessa del progetto Starlink, che sollevano interrogativi cruciali sul suo utilizzo, soprattutto per scopi istituzionali o militari.
I LIMITI TECNICI CHE EMERGONO DALL’ARCHITETTURA DI STARLINK
La costellazione si basa su una rete di satelliti che comunicano tra loro e con gateway terrestri, supportati da terminali utente distribuiti in tutto il mondo. Con una capacità (teorica) impressionante, il sistema promette velocità elevate, ma la realtà poi ci racconta una storia diversa. In aree densamente popolate infatti, la saturazione della banda riduce le prestazioni a meno di 50 Mbps, quindi ben al di sotto delle aspettative pubblicizzate.
I terminali utente, cuore dell’esperienza per chi utilizza Starlink, soffrono di problemi hardware che tra l’altro sono noti: surriscaldamento, malfunzionamenti e difficoltà di aggiornamento su larga scala.
Questi dispositivi, spesso esposti a condizioni ambientali estreme, non possono essere facilmente sostituiti o rinforzati senza costi proibitivi.
Inoltre, i gateway terrestri – punti nevralgici che collegano i satelliti alla rete internet globale – sono vulnerabili ad attacchi fisici e digitali. Un’interruzione in uno di questi nodi può compromettere intere regioni, e questo è un rischio che nessuna crittografia può eliminare.
LA COMPLESSITÀ GESTIONALE DELLA COSTELLAZIONE
Se da un certo lato la dimensione della costellazione di Starlink rappresenta il punto di forza del servizio satellitare, sul fronte cyber sec è probabilmente il suo punto più debole: gestire 7.000 satelliti operativi, con un piano per sestuplicarli e portarli a 42mila, è un’impresa titanica. Ogni anno, SpaceX deve lanciare decine di missioni – 20-30 lanci, con costi che si aggirano intorno ai 50-60 milioni di dollari ciascuno – solo per mantenere la rete attiva, sostituire satelliti obsoleti e mitigare i rischi derivanti dall’affollamento orbitale. Le tempeste solari, che possono danneggiare i componenti elettronici, e i detriti spaziali, che aumentano con l’espansione della costellazione, complicano ulteriormente il quadro. La manutenzione di un sistema così vasto richiede risorse economiche e logistiche immense, che mettono sotto pressione anche un’azienda come SpaceX. È difficile immaginare come queste sfide possano essere risolte senza mettere alla prova la sostenibilità del progetto.
Sul piano della sicurezza informatica, Starlink si trova di fronte a minacce che nessuna tecnologia aggiuntiva attuale può neutralizzare completamente.
Attacchi DDoS, malware specifici come il “Malware 4. STL” e vulnerabilità hardware nei terminali sono stati documentati da analisi recenti e documentate.
La crittografia avanzata – che alcuni ipotizzano come soluzione per usare Starlink in contesti militari o istituzionali – pur implementata, in realtà non basta: i dati che transitano attraverso i gateway terrestri o i terminali restano esposti a intercettazioni o manipolazioni.
Soluzioni come la crittografia quantistica o sistemi anti-jamming esistono teoricamente, ma il loro costo – parliamo di cifre nell’ordine di miliardi di dollari per una rete di questa scala – è fuori portata.
Inoltre la dipendenza da infrastrutture terrestri vulnerabili, crea un circolo vizioso: senza una rivoluzione tecnologica che elimini questa dipendenza, la sicurezza totale rimane un miraggio.
Per chi utilizza Starlink a livello civile, trovandosi in aree rurali non raggiunte da fibra, questi rischi possono essere accettabili.
Per istituzioni o forze armate, dove la riservatezza è vitale, rappresentano un problema che temo sia insormontabile,come spiego qui.
TERZO GRANDE OSTACOLO DI NATURA GEOPOLITICA, FORSE IL PIÙ PREOCCUPANTE
Starlink opera in un contesto globale attraversato da tensioni crescenti. La sua capacità di fornire connettività in zone di guerra o aree isolate è un punto di forza, ma anche una vulnerabilità. I terminali, facilmente geolocalizzabili tramite segnali radio, espongono gli utenti a rischi concreti: in un conflitto, un esercito che utilizza Starlink può essere individuato e colpito con precisione. Stati-nazione con capacità avanzate – come Russia o Cina – hanno già dimostrato di poter interferire con segnali satellitari attraverso tecniche di jamming o attacchi diretti ai gateway. Durante il conflitto ucraino, ad esempio, sono emerse segnalazioni di malfunzionamenti attribuiti a interferenze deliberate. In un’ipotetica rete dedicata per usi istituzionali, con terminali rinforzati e gateway protetti, questi rischi potrebbero essere attenuati, ma non eliminati. La scala globale di Starlink e la sua visibilità lo rendono un bersaglio inevitabile, e nessuna misura tecnica può cambiare questa realtà.
I NUMERI
Costruire e mantenere la costellazione richiede investimenti colossali: si stima che SpaceX abbia già speso oltre 10 miliardi di dollari, con costi operativi annuali che continuano a crescere. Per rendere il sistema redditizio, l’azienda punta su milioni di abbonati civili, ma questo mercato – considerati i costi vertiginosi di gestione e di implementazione della costellazione – potrebbe non bastare nel lungo periodo ma al contempo l’idea di un’espansione verso mercati istituzionali o militari richiederebbe ulteriori risorse – terminali speciali, infrastrutture dedicate, personale qualificato – che aumenterebbero ulteriormente il peso finanziario. Anche realtà strutturate, come quelle italiane che stanno esplorando collaborazioni con Starlink, si trovano di fronte a questo dilemma: per quanto competenti e innovative, ci sono limiti tecnici che non si possono superare con facilità perché derivano dalla struttura stessa del progetto. E i costi per rendere Starlink sicuro e affidabile, per usi sensibili superano i benefici, poiché lasciano aperti molti dei rischi descritti.
COSA SI PUÒ QUINDI?
In questo contesto, è interessante considerare il caso italiano, che ci riguarda da vicino e che mette in luce le sfide di una eventuale collaborazione con SpaceX. Trovo interessante notare che, secondo quanto riportato da Il Foglio oltre due mesi fa, l’11 gennaio 2025, Roberto Cingolani – ad di Leonardo, azienda leader nel settore aerospaziale e della difesa – aveva evidenziato il ritardo dell’Italia nello sviluppo delle tecnologie satellitari, settore strategico per sicurezza e innovazione. E che durante un incontro con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, Cingolani avesse proposto di colmare questo gap collaborando con SpaceX, sfruttando le capacità di Starlink per rafforzare la posizione italiana.
La cosa a mio avviso interessante, tuttavia, è la seguente: in questi ultimi due mesi il tavolo geopolitico è diventato molto più teso, un’evoluzione che non è passata inosservata. E non è a caso, a mio parere, se l’ 11 marzo 2025, il Wall Street Journal ha riportato una dichiarazione di Leonardo che appare molto più incline a sposare una visione di totale autonomia italiana, con l’azienda che punta a ordini per 28 miliardi di dollari entro il 2029, capitalizzando sull’aumento della domanda di tecnologie militari in Europa, in un contesto che richiede forze armate più robuste.
Questo cambio di tono potrebbe essere indice di una nuova e più profonda riflessione sull’opportunità di prendere una direzione autonoma da Starlink – per quanto concerne le comunicazioni istituzionali e militari – garantendo così quella sicurezza e quell’indipendenza tecnologica che determinati contesti esigono per loro natura.
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Analista indipendente, opero con passione per la verità e l’informazione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione. Iscritta all’Ordine dei Giornalisti dopo il praticantato, ho scelto di cancellarmi per coerenza etica in relazione ad esperienze con figure istituzionali. Laureata con lode in Architettura e Urbanistica, ho affinato la mia analisi tra studi professionali, cantieri navali e ricerca tecnologica. Ho collaborato con testate come Il Foglio, L’Espresso e Il Sole 24 Ore, contribuendo con articoli e analisi. Da tre anni curo una rubrica di tecnologia negli spazi dell’Istituto Bruno Leoni, approfondendo temi di innovazione e analisi. Co-autrice e curatrice del libro “Intelligenza Artificiale: cos’è davvero” con prefazione di Piero Angela, per Bollati Boringhieri.