Newsletter - Tech e Privacy - III settimana di aprile 2025
di Claudia Giulia Ferraùto - data 2025
Questo articolo fa parte della Newsletter settimanale “Tech e Privacy”
Benvenuti alla terza settimana di aprile 2025!
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SOMMARIO dei 5 temi della settimana + 5 APPROFONDIMENTI
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LA SINTESI GENERALE DEI 5 TEMI SELEZIONATI PER VOI
Questa settimana vi porto dentro storie piuttosto scottanti: conversazioni registrate senza consenso su Lyft a Toronto, l’evasione fiscale dei colossi tech, e poi l’impegno di Apple per la sostenibilità all’AI, fino a Palantir che si mette al servizio della Nato. Chiudiamo poi con le crescenti tensioni transatlantiche sui protocolli anti-spionaggio. Di cosa parliamo?
Conversazioni private rubate nel taxi: il caso Lyft a Toronto
Una donna scopre che la sua conversazione privata, avvenuta in un Lyft a Toronto l’11 marzo 2025, è stata registrata e trascritta senza consenso. Lyft ammette un programma pilota per la sicurezza, ma non spiega come i dati siano finiti a terzi, sollevando allarmi sulla privacy.
I giganti tech eludono tasse, gusto due spicci: 278 miliardi
La Fair Tax Foundation accusa i Silicon Six (Amazon, Meta, Apple, ecc.) di aver evaso 278 miliardi di tasse in 10 anni, pagando solo il 18,8% contro il 29,7% medio, sfruttando paradisi fiscali.
Apple verso il 60 percento in meno di emissioni?
Apple annuncia una riduzione del 60% delle emissioni dal 2015, con 17,8 gigawatt di energia rinnovabile e materiali riciclati al 99% in batterie e magneti, mirando alla neutralità carbonica entro il 2030.
Palantir arma la Nato con l’AI
Palantir, dopo l’annunciato consorzio con SpaceX e OpenAI per 850 miliardi di budget difesa, fornisce alla Nato un sistema AI(Maven Smart System) per analisi dati, sollevando dubbi etici e geopolitici.
Sfiducia transatlantica: l’UE contro lo spionaggio
L’UE vara protocolli anti-spionaggio nel 2024 per proteggere dati da USA e Cina, ma le tensioni con Washington crescono, alimentate da scandali come Snowden prima, e divergenze su Russia, Cina e molto altro oggi.
QUI DI SEGUITO TUTTI E 5 GLI APPROFONDIMENTI
La privacy svanisce nel retro di un Lyft: una storia di sorveglianza reale
È l’11 marzo 2025, e Toronto si sveglia sotto un cielo terso, con quella luce primaverile che rende tutto un po’ più vivo. Anvi Ahuja, una persona come tante con la mente piena di pensieri quotidiani, sale sul retro di un Lyft. Il sedile è morbido, l’odore di pulito nell’aria, il conducente silenzioso. Con lei ci sono alcuni conoscenti, e mentre il traffico scorre lento, iniziano a chiacchierare. È probabilmente una conversazione banale, di quelle che si fanno senza pensarci troppo: magari parlano del lavoro, di un nuovo ristorante in città, di sogni e piccoli drammi. Non sanno che ogni loro parola viene registrata, trascritta, e sta per diventare il centro di un incubo tecnologico.
Anvi torna a casa, il viaggio è già dimenticato. Ma poi, un messaggio. Uno squillo sul telefono, un numero sconosciuto. Apre il testo e il cuore le salta in gola: è la trascrizione esatta della conversazione avvenuta poco prima in macchina. Ogni parola, ogni pausa, tutto lì, nero su bianco, come se qualcuno avesse ascoltato e annotato ogni sillaba. Confusa, chiama il numero. Una voce registrata risponde, fredda, generica, e sembra provenire dal servizio Lyft. Ma come? Perché? Chi ha il suo numero? E, soprattutto, chi ha quella trascrizione?
La risposta arriva giorni dopo, e non è rassicurante. Lyft, contattata da Anvi e da CBC News, ammette di aver avviato un programma pilota a Toronto. Microfoni nei veicoli, conversazioni registrate e trascritte, tutto per “motivi di sicurezza”. Le trascrizioni, dicono, dovrebbero andare solo all’azienda, archiviate in via precauzionale in caso di problemi. Non dovrebbero mai finire nelle mani di estranei. Eppure, qualcuno ha mandato quel messaggio ad Anvi, usando un numero mascherato che sembra legato a Lyft. Il conducente? Un hacker? Un errore del sistema? Lyft non lo sa, o non lo dice.
All’inizio, l’azienda punta il dito contro il conducente, sostenendo che abbia registrato senza consenso. “Abbiamo preso provvedimenti”, dichiarano, senza specificare quali. Ma Anvi non ci crede. Come poteva il conducente avere il suo numero? E perché la trascrizione sembra così precisa, così professionale, come se fosse stata generata da un software avanzato? Lyft ammette che il programma pilota esiste, ma non spiega come i dati siano finiti altrove, finendo poi per essere trascritti e inviati in un messaggio alla donna. Anvi si sente violata. “Pensavo fosse un viaggio normale”, racconta a CBC. “Non immaginavo che le mie parole private potessero essere ascoltate, trascritte, e inviate chissà dove.”
La storia di Anvi non è solo un incidente isolato. È un campanello d’allarme. In un mondo dove la tecnologia promette comodità, il prezzo da pagare è la privacy? Seduta su quel sedile, Anvi non immaginava di essere un dato, una stringa di testo in un database, una conversazione pronta a essere condivisa. Ora si chiede: chi altro sta ascoltando? E cosa succede quando i sistemi invece di proteggerci iniziano a tradirci?
Mentre Lyft indaga, il caso di Anvi scuote Toronto e oltre. Le conversazioni nei taxi non sono più solo chiacchiere. Sono potenziali file, vulnerabilità, pronte a essere intercettate. E in un’epoca in cui la realtà sembra superare la fantascienza, la domanda non è più se la distopia sia possibile, ma se ci siamo già dentro.
A mio parere
Il caso di Anvi rivela un conflitto tra sicurezza e diritto alla privacy. La sorveglianza di Lyft, giustificata come misura protettiva, espone utenti inconsapevoli a rischi di abusi o violazioni, come dimostra la fuga di dati.
La scarsa trasparenza dell’azienda sottolinea l’urgenza di normative più severe per regolamentare tecnologie invasive e ristabilire la fiducia. Ma ora la domanda da farsi è: chi altro ci spia trascrivendo tutto di noi senza il nostro consenso? E no, non è una domanda provocatoria, sappiamo che l’ha fatto Lyft solo perché la cosa gli è sfuggita di mano, diversamente non l’avremmo saputo. Ma se la tecnologia e l’intenzionalità esistono signifca che sono in uso anche altrove.
BlackMirror è già qui.
Il grande gioco fiscale: come i giganti della tecnologia hanno eluso 278 miliardi di tasse
Nel cuore pulsante della Silicon Valley, dove l’innovazione sembra non dormire mai, sei colossi tecnologici - Amazon, Meta, Alphabet, Netflix, Apple e Microsoft, noti come i “Silicon Six”- hanno costruito imperi digitali che generano ricchezze inimmaginabili.
Il 15 aprile 2025, un’analisi della Fair Tax Foundation (FTF) getta però un’ombra su queste potenze: negli ultimi dieci anni, avrebbero evitato di pagare quasi 278 miliardi di dollari in tasse, rispetto a quanto dovuto secondo l’aliquota legale per aziende con profitti simili.
Immagina una sala riunioni, vetri scintillanti e schermi che proiettano numeri da capogiro: 11 trilioni di dollari di ricavi e 2,5 trilioni di profitti generati dai Silicon Six tra il 2014 e il 2024. Eppure, mentre in media il resto delle aziende americane pagava il 29,7% in tasse federali e statali, queste sei aziende hanno versato solo il 18,8%. Se si escludono i pagamenti straordinari legati a vecchie pratiche di elusione fiscale, la loro aliquota effettiva crolla al 16,1%. Come ci sono riusciti? La risposta sta in una rete intricata di strategie fiscali, spesso legali ma eticamente controverse, che spostano profitti verso paradisi fiscali come il Lussemburgo, dove Amazon, ad esempio, registra gran parte dei suoi guadagni britannici.
Ogni azienda ha il suo ruolo in questa partita. Netflix, con un’aliquota effettiva del 14,7%, è la meno virtuosa in termini percentuali. Meta segue con il 15,4%, Apple con il 18,4%, Amazon con il 19,6% e Microsoft con il 20,4%. Alphabet, la casa madre di Google, completa il gruppo. Ma non è solo una questione di numeri: l’FTF punta il dito contro Amazon per il suo “comportamento fiscale scorretto”, accusandola di pratiche evidenti come lo spostamento di profitti in giurisdizioni a bassa tassazione. Paul Monaghan, amministratore delegato dell’FTF, non usa mezzi termini: “L’elusione fiscale è radicata nelle strutture aziendali di queste società. La loro contribuzione fiscale è ben al di sotto di settori come banche ed energia in molte parti del mondo.”
La storia dei Silicon Six non è solo una questione di dollari e centesimi. È un racconto di potere, di come le aziende più influenti del pianeta abbiano sfruttato le pieghe di un sistema fiscale globale per massimizzare i profitti, potenziando un dominio su scala sovranazionale, mentre i governi faticano a tenere il passo. Negli Stati Uniti, dove l’aliquota legale per le imprese era più alta di quella effettivamente pagata, questo divario ha privato il fisco di risorse che avrebbero potuto finanziare scuole, ospedali, infrastrutture. E mentre i Silicon Six continuano a plasmare il nostro futuro digitale, la domanda si fa pressante: chi paga il prezzo della loro ascesa?
A mio parere
L’elusione fiscale dei Silicon Six evidenzia una discrepanza tra legalità e moralità. Strano, chi avrebbe mai pensato che aziende multimiliardarie abbiano un doppio standard, giusto? In fondo diventare multimiliardari è notoriamente solo questione di forza di volontà e una buona idea in tasca. Meglio ancora se l’idea è di tipo fiscale.
Ora, sebbene le loro strategie siano spesso poco trasparenti, non è detto che non si muovano all’interno di strategie lecite, anzi, ma drenano potenziali risorse pubbliche, caricando come conseguenza il peso fiscale necessario alle azioni pubbliche, su cittadini e PMI. Una riforma fiscale globale è necessaria, ma l’influenza delle big tech su scala sovranazionale rende improbabile - per non dire impossibile - immaginare un cambiamento rapido.
A questo proposito vi suggerisco di rileggere cosa scrivevo la scorsa settimana QUI.
Verso un futuro verde: Apple accelera il cammino verso la neutralità carbonica
Il 16 aprile 2025, un annuncio di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha catturato l’attenzione globale con un breve post su X: “Cinque anni fa ci siamo prefissati l'ambizioso obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica in ogni ambito della nostra attività entro il 2030. Oggi annunciamo di aver ridotto le nostre emissioni globali di oltre il 60% e di utilizzare più materiali riciclati ed energie rinnovabili che mai.” Il testo era accompagnato da un’immagine di pannelli solari che si stagliano contro un cielo azzurro e colline verdi. Oggi, l’azienda dichiara di aver ridotto le sue emissioni globali di gas serra di oltre il 60% rispetto al 2015, integrando più materiali riciclati e energie rinnovabili che mai nella sua storia. La notizia ha immediatamente acceso i riflettori, spingendo media e analisti a esplorare i dettagli di questa svolta ambientale.
Il sito ufficiale di Apple ha pubblicato un dettagliato Environmental Progress Report, sottolineando come l’azienda abbia raggiunto il 60% di riduzione delle emissioni attraverso una transizione massiccia verso l’energia pulita nella sua catena di approvvigionamento. Con 17,8 gigawatt di energia rinnovabile ora attivi tra i fornitori, Apple ha evitato 21,8 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 nel 2024, un incremento del 17% rispetto all’anno precedente. Inoltre, l’adozione di materiali riciclati ha raggiunto livelli record: il 99% degli elementi di terre rare nei magneti e il 99% del cobalto nelle batterie progettate da Apple provengono ora da fonti riciclate. Un incentivo per i consumatori, con uno sconto del 10% sui nuovi prodotti per chi ricicla vecchi dispositivi, completa l’impegno dell’azienda.
Il Guardian ha accolto la notizia con un articolo che elogia i progressi di Apple, ma invita a una riflessione critica. Secondo il quotidiano britannico, la riduzione del 60% è un passo importante, ma il vero test sarà mantenere questa traiettoria fino al 2030, soprattutto considerando le emissioni della supply chain, che rappresentano la maggior parte dell’impatto ambientale dell’azienda. Il pezzo evidenzia anche l’iniziativa di Apple in India, dove l’energia solare alimenta scuole e cliniche rurali, e progetti di gestione dell’acqua migliorano l’accesso nelle aree urbane, segno di un approccio globale alla sostenibilità.
Anche Deccan Herald ha dedicato spazio all’argomento, enfatizzando il ruolo di Apple come leader nel settore tecnologico. L’articolo descrive come l’azienda stia spingendo i suoi oltre 300 fornitori a utilizzare il 100% di energia rinnovabile entro il 2030, un impegno che potrebbe ispirare altre multinazionali. Tuttavia, solleva interrogativi sui costi ambientali della produzione di pannelli solari e batterie, un aspetto che Apple dovrà affrontare per consolidare la sua credibilità.
MarketScreener, invece, ha analizzato il report annuale di Apple, mettendo in luce i dettagli tecnici: dal 2018, ogni facility dell’azienda - uffici, negozi e data center - opera con energia rinnovabile, mentre i fornitori hanno già attivato significativi progetti di efficienza energetica. L’articolo suggerisce che questi risultati potrebbero rafforzare la posizione di Apple sul mercato, attirando investitori sensibili alle questioni ESG (Environmental, Social, Governance).
In un mondo sempre più attento al cambiamento climatico - fatta eccezione per l’attuale presidente degli Stati Uniti che lo nega con forza - l’annuncio di Cook non è solo una vittoria per Apple, ma un segnale per l’industria tecnologica. Gli articoli concordano sul fatto che il percorso verso la neutralità carbonica sia ancora lungo, ma riconoscono il peso di un’azienda che, con i suoi 41 milioni di tonnellate di emissioni evitate nel 2024, sta cercando di ridisegnare il futuro del pianeta.
A mio parere
I progressi ambientali di Apple sono notevoli, ma il rischio di greenwashing in questo tipo di comunicazioni, spesso autocertificate, persiste se non si affrontano, tra le altre cose, i costi ecologici della produzione di tecnologie rinnovabili. La dipendenza da una supply chain globale richiede standard più uniformi e trasparenti per garantire un impatto realmente sostenibile.
C’è poi da dire che con la politica imprevedibile messa in campo da Trump con i dazi, tutta la visione di Apple ( e non solo di Apple) corre gravi rischi, come scrivevo QUI e se la situazione non si stabilizza, qualunque politica industriale green ne risentirà per forza.
Intelligenza artificiale e potere militare: il cammino di Palantir dal consorzio alla Nato
Il 22 dicembre 2024, un annuncio ha acceso i riflettori sul mondo della tecnologia della difesa: Palantir e Anduril, due giganti del settore, erano entrate in trattative con 12 aziende – tra cui SpaceX di Elon Musk, OpenAI, Saronic e Scale AI – per formare un consorzio ambizioso. L’obiettivo? Competere per una fetta del budget della difesa statunitense, stimato in 850 miliardi di dollari. Questa mossa, riportata dal Financial Times, segnalava un’alleanza tra innovatori della Silicon Valley e contractor militari, pronta a ridefinire il panorama della sicurezza globale.
Oggi, quasi quattro mesi dopo, si è aperto un nuovo capitolo: la Nato ha acquisito un sistema militare potenziato dall’intelligenza artificiale sviluppato da Palantir.
L’azienda guidata da Peter Thiel, noto sostenitore di Donald Trump e con legami consolidati con il Pentagono. Questi due eventi, intrecciati da una visione strategica comune, delineano l’ascesa di Palantir come protagonista nella guerra digitale su scala globale.
Tornando al consorzio del dicembre 2024, l’iniziativa rifletteva una risposta alle crescenti tensioni geopolitiche, dalle guerre in Ucraina al Medio Oriente, fino alla competizione con la Cina. Le aziende coinvolte portavano competenze complementari: SpaceX con le sue capacità satellitari, OpenAI con l’IA generativa, e Scale AI con l’elaborazione dati, tutte unite per offrire al governo statunitense soluzioni all’avanguardia.
Il Financial Times aveva allora previsto che il consorzio potesse spostare miliardi di dollari verso la Silicon Valley, sfruttando tecnologie già testate in scenari di conflitto. Questo contesto ha gettato le basi per il passo successivo di Palantir, culminato nell’acquisizione da parte della Nato del Maven Smart System (MSS Nato), una versione avanzata del software che integra intelligenza generativa, machine learning e modelli linguistici per supportare i comandanti sul campo.
L’annuncio del 14 aprile 2025 ha sorpreso per la velocità dell’operazione: sei mesi per finalizzare il contratto, con l’obiettivo di renderlo operativo entro 30 giorni. Secondo il Financial Times, il sistema permette a 20-50 soldati di analizzare dati complessi che un tempo richiedevano centinaia di persone, un vantaggio cruciale in conflitti moderni. Reuters ha collegato questa mossa all’urgenza strategica dell’alleanza, accentuata dalle minacce di Trump di ridurre il sostegno americano, spingendo l’Europa a investire in tecnologie autonome.
L’esperienza di Palantir con partner come OpenAI, già parte del consorzio, sembra aver influenzato lo sviluppo di MSS Nato, che utilizza capacità di fusione dati dimostrate in Ucraina, dove immagini satellitari e intelligence sul campo sono state integrate con successo.
Non mancano, le ombre. The Verge ha sollevato interrogativi etici, ricordando il ritiro di Google dal Progetto Maven nel 2018 per proteste interne sull’uso dell’IA in guerra. Con Thiel al timone e legami politici controversi, Palantir potrebbe affrontare critiche simili, soprattutto considerando la collaborazione con aziende innovative che hanno attirato l’attenzione globale nel consorzio del 2024. Shon Manasco, senior counselor di Palantir, ha difeso l’iniziativa come un “supporto al deterrence”, ma il dibattito sulla militarizzazione dell’IA resta aperto. Defense News, dal canto suo, ha elogiato la rapidità dell’acquisizione e il potenziale operativo di MSS Nato, pur avvertendo che la dipendenza da un unico fornitore - rafforzata dai partner del consorzio - potrebbe creare vulnerabilità, suggerendo a Nato di diversificare le fonti, magari includendo soluzioni come l’alternativa francese Artemis.
Mentre la Nato cerca di rafforzarsi e il consorzio continua a plasmare il futuro della difesa, le implicazioni di questa traiettoria saranno al centro del dibattito per anni, in un mondo dove la tecnologia decide non solo chi vince, ma anche chi sopravvive.
A mio parere
Il filo conduttore tra questi eventi è chiaro: Palantir sta costruendo un impero tecnologico-militare, radicato nel consorzio del 2024 e consolidato con l’accordo Nato del 2025. Con un’espansione globale, l’azienda si posiziona al centro di un equilibrio delicato tra innovazione, geopolitica ed etica.
L’espansione di Palantir nel settore militare, potenziata dall’IA, solleva molti dilemmi non solo etici, ma soprattutto geopolitici e di governance, sulla militarizzazione tecnologica.
La concentrazione di tanto potere nelle mani di in un unico attore rischia di compromettere la sovranità degli alleati, e l’assenza di un dibattito in tal senso -sui rischi di escalation bellica - è preoccupante.
Un filo sottile di sfiducia: l’analisi delle tensioni transatlantiche e dei protocolli anti-spionaggio dell’UE
Il 14 aprile 2025, il sito Debug Lies ha pubblicato un articolo intitolato “Unraveling Transatlantic Distrust: A Critical Examination of EU Anti-Espionage Protocols and Geopolitical Fractures in U.S.-EU Relations, 2025”, che esplora le crepe crescenti nelle relazioni tra Stati Uniti ed Unione Europea, con un focus sui protocolli anti-spionaggio dell’UE.
L’articolo descrive un clima di crescente diffidenza, alimentato da scandali di spionaggio passati, come le famose rivelazioni di Edward Snowden nel 2013 sulle attività della National Security Agency (NSA) americana, che intercettò comunicazioni di leader europei, tra cui la cancelliera tedesca Angela Merkel.
Questi eventi hanno lasciato un’eredità di sospetto, acuita dalle tensioni recenti (ndr), spingendo l’UE a rafforzare le sue difese con il nuovo quadro anti-spionaggio introdotto nel 2024 - testimoniato anche dalle recenti precauzioni sui device adottate dall’UE - che mira a proteggere le infrastrutture critiche e i dati sensibili da minacce interne ed esterne.
L’analisi evidenzia come l’UE stia implementando misure più severe, inclusi controlli più rigidi su investimenti stranieri e sanzioni per le aziende sospettate di spionaggio economico, come quelle cinesi e, indirettamente, americane. Debug Lies cita un caso recente: l’indagine dell’UE su una società tecnologica statunitense accusata di trasferire dati sensibili a Washington, un episodio che ha riacceso il dibattito sulla sovranità digitale. L’articolo suggerisce che queste tensioni siano aggravate da divergenze geopolitiche, come le diverse posizioni su Cina e Russia, e dalla riluttanza degli USA a condividere informazioni complete con i partner europei, alimentando un circolo vizioso di sfiducia.
Altri media autorevoli hanno ripreso temi simili, offrendo prospettive complementari. Il Financial Times, in un articolo del 12 aprile 2025, ha analizzato l’impatto del nuovo regolamento anti-spionaggio dell’UE, sottolineando come esso abbia già portato alla revisione di contratti con aziende americane nel settore tecnologico, inclusa Palantir - e qui vi consiglio di rileggere l’articolo precedente a questo, che trovate qui sopra in questa stessa Newsletter - a causa di preoccupazioni sulla sicurezza dei dati.
Il quotidiano britannico nota che Bruxelles sta cercando di bilanciare la cooperazione con Washington contro la necessità di proteggere i propri interessi, un equilibrio reso più complesso dalle recenti acquisizioni militari di Nato- Palantir.
Euractiv, in un pezzo del 15 aprile 2025, si concentra sull’aspetto pratico dei protocolli, riportando che l’UE ha avviato un programma pilota per monitorare il traffico dati transatlantico, con l’obiettivo di identificare potenziali violazioni entro il 2026. L’articolo cita un funzionario europeo anonimo che definisce la misura “una risposta inevitabile” alle crescenti minacce cyber, ma ammette che potrebbe complicare la collaborazione con gli Stati Uniti, specialmente nel contesto delle tensioni post-elettorali americane.
Infine, Politico Europe, in un’analisi del 13 aprile 2025, esplora le fratture geopolitiche, collegando la sfiducia transatlantica alla divergenza su questioni come il commercio con la Cina e la gestione delle crisi migratorie. L’articolo suggerisce che l’UE stia cercando di affermarsi come attore indipendente, ma che questa ambizione rischi di indebolire ulteriormente i legami con Washington, già sotto pressione per le politiche isolazioniste di alcune fazioni americane.
A mio parere
Mettendo insieme tutti i ragionamenti, emerge un quadro di relazioni transatlantiche fragili, dove i protocolli anti-spionaggio dell’UE rappresentano sia una barriera protettiva che un punto di frizione. Mentre l’Europa si muove verso una maggiore autonomia, il clima di sfiducia con gli Stati Uniti sembra destinato a crescere, con implicazioni profonde per la sicurezza e la cooperazione globale.
I protocolli anti-spionaggio dell’UE sono cruciali per proteggere la sovranità digitale, ma potrebbero innescare una frammentazione tecnologica.
La crescente sfiducia transatlantica, se non mitigata, rischia di indebolire la cooperazione su minacce globali, come il cyberspionaggio di potenze rivali.
Per fortuna alla presidenza degli Stati Uniti c’è una persona misurata e affidabile che sta dimostrando grandissima capacità strategica nel conservare la fiducia degli alleati, giusto?
Alla prossima settimana!
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Analista indipendente, opero con passione per la verità e l’informazione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione. Iscritta all’Ordine dei Giornalisti dopo il praticantato, ho scelto di cancellarmi per coerenza etica in relazione ad esperienze con figure istituzionali. Laureata con lode in Architettura e Urbanistica, ho affinato la mia analisi tra studi professionali, cantieri navali e ricerca tecnologica. Ho collaborato con testate come Il Foglio, L’Espresso e Il Sole 24 Ore, contribuendo con articoli e analisi. Da tre anni curo una rubrica di tecnologia negli spazi dell’Istituto Bruno Leoni, approfondendo temi di innovazione e analisi. Co-autrice e curatrice del libro “Intelligenza Artificiale: cos’è davvero” con prefazione di Piero Angela, per Bollati Boringhieri.